IL CABARET


Vorrei dire qualche cosa su un mondo che è sparito e che ha rappresentato una delle punte massime della cultura italiana: Il Cabaret.

Nei nostri Cabaret scherzavamo sulle cose che ci sembravano palesemente oscure, osavamo deridere chi non se la sentiva di rischiare e contrapporci umoristicamente a un modo di esistere arrendevolmente borghese. Ed era persino divertente fare le pulci al potere, in un periodo in cui tutta la politica appariva rigida, quasi ingessata e i media stavano appena imparando ad avere solo se stessi come riferimento.  Resta solo da chiederci come lo abbiamo speso, quel tempo che è stato vissuto su quei palcoscenici; ma mentre ce lo chiediamo, sappiamo già che ormai non possiamo fare di più: il tempo passato non ritorna. Però possiamo, almeno, non suffragare menzogne. In questo scritto ci sono parecchi riferimenti a Luciano Cirri, personaggio unico di quel periodo storico che, purtroppo, ci ha lasciato troppo presto, insieme a una serie di interrogativi, di domande e di quesiti mai risolti.

A lui soprattutto devo molto della mia attività artistica. Per i consigli ricevuti, per la fiducia che lui mi ha accordato, per quella forma di amore – odio che egli nutriva per tutte le persone a cui egli voleva sinceramente bene e di cui, in qualche modo, fui oggetto anche io. 

 Devo fare una premessa che ritengo necessaria per comprendere quello che è stato il nostro Cabaret. Il Cabaret, voglio ricordarlo, è storicamente una forma di spettacolo che combina teatro e canzone, secondo canoni molto particolari legati alla sperimentazione di nuovi linguaggi e di un diverso tipo di rappresentazione teatrale. Nato sul finire del XIX secolo in Francia, si differenziò subito dal cafè chantant, orientato maggiormente verso l'intrattenimento. Fu all'interno dei primi cabaret che fiorirono le correnti di dadaismo, di futurismo e, più tardi, di surrealismo, scuole di pensiero che avrebbero influenzato tutta l'arte del secolo scorso.

Ma partiamo dagli inizi. Il collegamento naturale di questo genere è con la Commedia Attica nuova, le commedie Osche (Atellane), Plauto, la Commedia dell’Arte; ma le sue autentiche origini moderne si possono collocare in quelle taverne parigine o cambrettes (da cui il termine cabaret) che artisti e letterati come Villon, Gringoire e Rabelet erano soliti frequentare. Da luogo di incontro per scambi di idee e di esperienze, o per la lettura di versi o brani inediti, il cabaret assunse in breve tempo la caratteristica di ritrovo - spettacolo per le esibizioni di artisti che, con il loro modo di proporsi caratterizzato da una particolare vena di anticonformismo e di spregiudicatezza, ne fece la pedana ideale dei movimenti artistici e d’avanguardia del periodo a cavallo tra l’ottocento e il novecento. Il primo di questi locali fu fondato nel 1881 a Parigi nel quartiere di Montmartre e si chiamava Le cabaret artistique de Rodolphe Salis, subito dopo rinominato Le Chat Noir. Altri cabaret del periodo furono il Cabaret des Quat'z'Arts, La Lune rousse  e Les Pantins. Dalla Francia, il Cabaret si trapiantò ben presto in Germania dove, per la particolare congenialità dello spirito tedesco, mise profonde radici. E fu lì che si affermò  quella predilezione per la satira sociale, politica e di costume che ha costituito la tematica dominante anche dei nostri Cabaret. Il film Cabaret, con Liza Minnelli, ricorda in maniera abbastanza felice quel periodo.

Fu proprio nel 1900 che venne affrontato da Ernst von Wolzogen il primo esperimento di cabaret tedesco, che al tempo era chiamato Buntes Theater (teatro colorato), ma il genere Kabarett prese veramente piede tra gli anni venti e gli anni trenta del Novecento portando al successo artisti come Karl Valentin al Wien-München e Werner Finck al Kathakombe. Una delle tecniche più applaudite di questo eccezionale personaggio era il fingere di non riuscire a trovare le parole per concludere un discorso, in modo che il pubblico potesse comprendere da solo la battuta non completamente pronunciata. Questo ovviamente scatenava la risata.

Finck

Il 10 maggio 1935 il ministro della Propaganda nazista Joseph Goebbels  fece chiudere il Kathakombe. Finck venne arrestato e condannato ma la sua pena venne commutata in un periodo di interdizione ai locali pubblici. Tuttavia, nel 1937 tornò di nuovo ad esibirsi e lo fece al Kabarett der Komiker. Anche questo locale venne chiuso dal regime nel 1939. Sembra quasi assurdo ma, per sfuggire ad un ulteriore arresto, Finck si arruolò "volontario" per il fronte: gli venne assegnato l'incarico di radiotelegrafista e combatté in Francia, Unione Sovietica e Italia dove nel 1945 venne fatto prigioniero dagli Alleati che non volevano credere che egli fosse il famoso fustigatore dei vizi dei gerarchi nazisti. Dopo la seconda guerra mondiale Werner Finck si esibì ancora nel cabaret Nebelhorn di Zurigo e in seguito al Mausefalle di Stoccarda.
In Italia,
la comicità fatta di critica e satira social - politica iniziò negli ambienti di varietà con Petrolini, De Angelis, Maldacea e altri. Nel dopoguerra una delle prime formazioni moderne fu quella dei Gobbi con Bonucci, Caprioli e Franca Valeri. Presentavano testi creati da loro e che essi stessi rappresentavano, rigidamente, come erano stati scritti. La caratteristica del testo teatrale fu poi ripresa dagli autori del Bagaglino, che intendevano fare proprio un Teatro - Cabaret, e diffusa in tutto il centro sud. Si trattava pertanto di Cabaret d'autore, dove l'attore poteva inserire qualcosa di suo ma non inventare di sana pianta lo spettacolo. Viceversa il Cabaret d'attore prevede personaggi che, sfruttando le loro capacità istrioniche, conversano con il pubblico variando il testo della rappresentazione, che il più delle volte scrivono da soli. A Milano il cabaret prese vita, nel 1963 al Derby club, grazie al ristoratore Bongiovanni e al jazzista Intra, cui si affiancò subito Franco Nebbia straordinario musicista intrattenitore che eseguiva canzoncine dal sapore goliardico. Fu con Intra e Nebbia che nacque il primo manipolo di talenti. Di solito si trattava di artisti che si esibivano da soli. Con i Gufi, prima, e i Gatti di Vicolo Miracoli, dopo, sopravvenne un notevole cambiamento verso formazioni di gruppo. Nel 1970 - 71, nel centro storico della città, si aprì il Refettorio, gestito da Roberto Brivio, uno dei Gufi, che cercò di contrapporsi con scarso successo all'ormai lanciatissimo locale di viale Monte Rosa. Sempre a Milano una ribalta piuttosto affermata del Cabaret fu lo Zelig che riuscì a rivelare diversi comici, avviandone o accelerandone il successo. E va menzionato anche il Ciak di Milano, un cinema di periferia che si trasformò nel 1977 in teatro di Cabaret. Dopo Milano, fu la volta di Roma. Nel 1965 Maurizio Costanzo aprì nella capitale, in via della Vite, il Cab 37 scoprendo e lanciando Paolo Villaggio, Gianfranco D'Angelo, Pippo Franco e il cantastorie Silvano Spadaccino. Costanzo con il suo gruppo si trasferì poi al Setteperotto, in via dei Panieri 56. E qui fece debuttare un giovanotto alto e magro che recitava e cantava accompagnandosi alla chitarra: era Proietti Luigi detto Gigi.  Sempre a  Roma e sempre nel 1965, esplose Il Bagaglino, guidato da un gruppo di giornalisti: Mario Castellacci, Piero Palumbo, Pierfrancesco Pingitore e Luciano Cirri ai quali si aggregarono Gianfranco Finaldi e il musicista Dimitri Gribanovski. Questo Teatro Cabaret fu una vera fucina di idee fuori da ogni tendenza, una autentica novità, per il periodo. Causò un vero terremoto, nel mondo dello spettacolo. 

 Travaso

  Poi, nel 1968, Luciano Cirri volle aprire un altro cabaret. Si chiamò Il Giardino del Supplizi. Dal 1974, il Bagaglino si trasferì al salone Margherita. Ai Cabaret romani, si era nel frattempo aggiunto l’Oratorio con i testi di Verde e Broccoli e con Antonella Steni, Raf Lucam, Leo Valeriano e Enrico Siminetti. Anche a Napoli nacque e si affermò con successo un Cabaret di questo tipo: la Porta Infame. I testi che venivano rappresentati furono quelli di Cirri, all’inizio, e in seguito quelli di Zanfagna – Di Bianco. Ancora a Roma, nacque La Chanson che lanciò Leo Gullotta ma anche il gruppo di cabaret "La Smorfia" composto da Lello Arena, Enzo De Caro e Massimo Troisi. Nel settembre del 2011 il Bagaglino terminò anche la sua vita teatrale, per decisione dei gestori del Salone Margherita di Roma e della storica produttrice Rosa Pol. 
In tutti quegli anni, furono
due le grandi tendenze che caratterizzarono questo tipo di rappresentazione: quella del Cabaret d'attore e quella del Cabaret d'autore. Nel Cabaret d’attore, l’interprete può anche improvvisare. Nel cabaret d’autore è molto più difficile perché l’attore ha un copione da seguire e le digressioni possibili non sono molte. Inoltre, a distinguere i due tipi di Cabaret, intervenne soprattutto lo stile. Quello milanese era meno impegnato e sicuramente alla portata di tutti. Quello romano, ricco di sfumature, di riferimenti e di giochi di parole, era più raffinato e dedicato a un pubblico certamente più colto ed informato anche delle vicende della politica, di cui Roma era il centro. Ma cerchiamo di capire meglio qual è la struttura del Cabaret. Come tutti sanno, si tratta di un genere di spettacolo molto particolare. Non c’è o è ridotto al minimo lo scenario, non è una vera e propria rappresentazione e questo non consente un autentico appoggio sui personaggi che variano continuamente. Non esiste una trama vera e propria, ma soltanto un pretesto: un esile filo conduttore per seguire il quale l’artista si deve destreggiare come un funambolo. Inoltre, avendo una forte presa emotiva sul pubblico, crea una enorme tensione per lo stesso artista che, senza poter disporre di effetti particolari, deve mantenere una sorta di rapporto magico e di intensa partecipazione con gli spettatori. Sia che affronti aspetti comici, sia che si appoggi alla poesia. è logico perciò che questo sia diventato naturalmente un genere di  spettacolo da godere preferibilmente in ambienti piccoli, dove gli effetti sonori e luminosi, che sono comunque sempre ridotti al minimo, possono raggiungere quella particolarissima suggestione che viene creata dall’immediata vicinanza tra artista e pubblico che, spesso coinvolto, può diventare egli stesso protagonista della rappresentazione. Credo di poter affermare senza paura di essere smentito che, per questo motivo, la televisione sminuisca il Cabaret proprio perché questo genere di spettacolo ha bisogno della partecipazione diretta del pubblico. I vari tentativi che sono stati fatti non possono essere considerati vero cabaret, ma si avvicinano di più all’altro citato tipo di spettacolo, sempre di origine francese: il cafè chantant! Infatti mentre il cabaret rimane comunque uno spettacolo di rottura, di protesta, nel cafè chantant la protesta non c’è più: c’è rassegnazione e quasi compiacimento. Ecco perché risulta più adatto alla televisione. Del resto il mezzo televisivo essendo un media di massa, non consente molta concentrazione, è dispersivo e soprattutto tende verso altri fini. Invece il Cabaret, che in fondo deriva da espressioni di popolo, al popolo intende ritornare come divertente mezzo per far riflettere e, se è vero che questo genere è stato creato da intellettuali, è pur vero che a usufruirne è stata la parte più sensibile del popolo, che ricerca e ritrova la rabbia, la malinconia e anche l’umorismo di antiche espressioni e canti nati tra la gente comune per motivi di protesta o di gioia. Non importa quale sia la tendenza del Cabaret, i meccanismi sono sempre gli stessi.

Io devo molto a Luciano Cirri. 

A questo punto è necessario dire qualche cosa di più su questo controverso personaggio. Era nato a Pisa il 18 agosto 1931 da una buona famiglia, piuttosto colta ma di modeste possibilità economiche, che tuttavia aveva voluto per il loro figliolo l’accesso a una buona istruzione. Il giovane Luciano aveva messo bene a frutto quelle possibilità e in brevissimo tempo era diventato uno dei giovani intellettuali di quella destra rivoluzionaria, che si riconduceva all’aspro spirito di una certa toscanità. Luciano aveva conosciuto Giovanna, quella che sarebbe diventata sua moglie, sui banchi di scuola. Insieme avevano combattuto quelle battaglie studentesche che vedevano scontrarsi continuamente gruppi di destra e di sinistra. Insomma i due crebbero praticamente insieme nelle fila dei giovani di destra. Poi arrivò il giorno in cui Giovanna si fidanzò e decise di sposarsi con un amico di Luciano, ma egli la dissuase dicendole: “Non puoi sposare lui, devi sposare me.” - e alle proteste di lei aggiungeva – “Gli faresti solo del male perché, se tu lo sposassi, io e te finiremmo con il diventare amanti. Pertanto è meglio che il rischio lo corra io. Credimi è per puro spirito di altruismo che lo faccio!” - Tanto senso dell’umorismo e tanta sfacciataggine non potevano non sortire l’effetto da lui desiderato. Questo fatto mi fu raccontato dallo stesso Cirri. E così accadde che, lasciato il fidanzato in una crisi di nervi (secondo me procuratale dallo stesso luciano), dopo un ragionevole lasso di tempo, Giovanna si fece condurre all’altare dal suo affascinate e impudente camerata.  Le foto ci dicono che erano veramente una bella coppia e io so che lo erano ancora quando li conobbi. La cosa strana è che io non incontrai Giovanna come moglie di Luciano, bensì come energica dirigente proprio della casa discografica RCA con la quale avevo cominciato a avere frequenti contatti. Ma in quel periodo ignoravo completamente che fosse la moglie di Luciano Cirri. Era una di quelle donne che vengono definite di carattere, tutto pepe e decisione. Una di quelle persone che ti fanno sentire il bisogno di correre anche quando la tua pigrizia ti frena. Avevano una figlia che adoravano: Francesca. A lei Luciano aveva dedicato una delle sue più struggenti canzoni Ninna nanna a Francesca, in cui egli aveva nascosto molti dei suoi sentimenti e delle sue frustrazioni. Inutile continuare a raccontare come egli fosse continuamente circondato da donne bellissime e desiderose di avere almeno un invito a cena, da parte sua. 
E Cirri riusciva a destreggiarsi con una abilità unica. Ma questa è una cosa che riguarda solo un aspetto della sua vita e che non fa parte della nostra storia.

Viviamo un tempo che dovrebbe vederci impegnati a edificare nuovi motivi per sognare e nuovi ideali da consegnare alle generazioni che aspettano. Ma è un compito che dobbiamo affrontare oggi. Consapevolmente. Perché come uomini liberi non ci possiamo sentire, come si sentono altri, eredi di diritti superiori ma solamente di doveri superiori. E poiché è l’esempio quello che conta dovremmo comprendere che non basta parlare. E allora ecco l’esortazione a dimostrare a questa Italia attonita che rischia di affogare, adesso, subito,  anche se questo dovrà comportare il coraggio della solitudine personale, che noi al di la di tutti gli schemi, delle correnti, dei gruppi umani e delle diverse particolarità, siamo e restiamo  un Popolo solo e unito che si batte per una sola Idea e che ha un unico punto di riferimento. L’Italia, appunto. Con tutte le sue ricche e meravigliose tradizioni. In questa ottica il mondo della canzone,  quello del teatro, quello della letteratura possono offrire un supporto eccezionalmente valido. Purché, ovviamente, questa comunità di donne e di uomini si sforzi di comprenderne l’importanza sul piano della diffusione delle idee. E il messaggio teatrale, letterario, musicale, quello delle canzoni, si riscoprirà capace di diffondere in tutto quanto nostro popolo una grande speranza.
Per terminare questa manciata di ricordi, voglio proporvi un’intervista che io feci qualche tempo fa a Francesca Cirri, la figlia di Luciano. In mezzo, ho inserito alcuni scritti dello stesso Cirri.

 Cirri

 


Un giorno, dissi, sarà come se il mio nome e il mio viso fossero impressi sul cielo, coi colori dell'arcobaleno. La gente d’ogni paese e d'ogni città, di qualsiasi meridiano, se è vero che nulla come il cielo e uguale per tutti, alzando gli occhi vedrà questo viso e questo nome e saprà che ho scritto, creato, sofferto, bestemmiato, pregato, sbagliato per lei. E se è vero che il cielo è immutabile, non morirò mai, e sarò più vivo di oggi per tutti.

 L’ultima conquista

sono le mie sconfitte,

ma nessuno le acquista,

nemmeno a rate

queste mie ore disperate.

Bambine mie ve lo giuro

nelle vostre piccole mani,

c'è tutto il mio niente,

il mio inesistente domani.

Negli occhi d'un gatto

c’è tutto: detto e non fatto.



L.V.- Cara Francesca, questi pensieri sono gli ultimi che tuo padre ha scritto nei giorni precedenti la sua morte. Come sempre riusciva a sintetizzare in poche righe un universo di sentimenti. Cosa ricordi di quel periodo?

Fran- Tutto. Ricordo ogni singolo momento, ogni parola detta, ogni palpito di vento, ogni sfumatura di colore, ogni silenzio. È evidente che egli intuiva che la fiamma della vita si stava spegnendo in lui, ma mai un cedimento con noi, mai un attimo di tristezza o paura, solo questi pensieri ritrovati a giorni dalla sua morte da mia madre nello studio di casa su un taccuino di pelle. Aveva vissuto l'ultimo inverno a casa circondato dall'amore e dalla dedizione di mia madre e mia, in compagnia, si fa per dire, di due gatte, che lo studiavano a distanza, e lui loro, con le quali evidentemente comunicava con gli sguardi. caro amato padre, fossi stata anch'io una gatta mi sarei accorta delle tue ore disperate.

L.V.- Cosa conservi?

Fran- I valori che mi ha trasmesso, la qualità di vita che mi ha insegnato, mi hanno portato sempre a scegliere il giusto. Essere fedeli a se stessi, ai propri ideali, ai propri sogni migliori, prendere con ironia e un poco di cinismo i fatti che ci circondano, essere persone serie senza però prendersi troppo sul serio, affrontare la vita a viso alto e non rammaricarsi troppo per gli sbagli.

L.V.- Parlavate molto, tra voi?

Fran- All’inizio, quando ero troppo piccola e prima che si instaurasse la tradizione dei bigliettini che ci scrivevamo quasi quotidianamente. Durante i lunghi, meravigliosi anni che ho potuto stargli accanto, ci siamo sempre scritti dei biglietti per comunicare il nostro affetto. Ricordo che io li lasciavo sul suo comodino o sulla scrivania, affinché lui li ritrovasse, rincasando.

L.V.- E lui come ti rispondeva?

Fran- Con altri bigliettini che io trovavo sul mio lettino, puntualmente, la mattina seguente. Non si trattava di lunghe lettere, o perlomeno non sempre. Il più delle volte erano semplici frasi in cui io raccontavo quello che ritenevo fosse importante tra le cose che avevo fatto durante la giornata, qualche impressione, la richiesta di un consiglio, un semplice "ti voglio bene, papà". Quasi avessimo paura di comunicarci direttamente i nostri sentimenti, ma in realtà perché avevamo limitate occasioni per incontrarci, lo scrivere tra noi è stato sempre un elemento fondamentale del nostro rapporto. Se doveva dirmi cose troppo importanti e che non avrei compreso, ne faceva un articolo e lo pubblicava sui giornali. I fatti di famiglia diventavano così argomento di articoli e, le nostre storie, dominio pubblico. Come nel caso della morte di mia nonna Lina. Anche questo può essere utile per comprendere chi fosse realmente Luciano Cirri e quanta poesia e sensibilità ci fossero in lui. Per tutti, egli è stato il giornalista, l’autore, lo scrittore, il poeta. Per me era soprattutto il Padre. Lo dico con la P maiuscola perché egli la meritava. Ma per non incorrere in quelli che qualcuno potrebbe definire sentimentalismi postumi, preferisco far raccontare Luciano Cirri da lui stesso, attraverso alcuni scritti inediti che egli ci ha lasciato.


Voglio confessare subito che quando ho letto sui giornali e sentito dalla Rai la proposta di "adottare un anziano", sono restato alquanto perplesso. Anch'io sono presumibilmente anziano, e nessuno mi adotta. Anzi, da molti anni sono costretto a fare da tutore ad una figlia, una moglie, una signorina che aiuta nelle faccende di casa, una robusta signora che sbriga, ad ore, i lavori più pesanti, e due gatte. Ogni tanto mi viene la voglia di parlare, finalmente, con un uomo. L'altra sera mi sono imbattuto in un signore che sembrava più antico che vecchio, con una lunga barba bianca e uno scintillante sguardo azzurro. Gli ho detto, vedendolo vacillare sotto il peso di una secolare stanchezza: "Mi scusi, posso aiutarla?". Mi ha guardato per un interminabile momento. Poi ha detto: "Si, se puoi darmi qualche milione in contanti oppure se puoi portarmi a casa tua!". Non avevo milioni in contanti, e l'ho portato in casa mia. Non e una reggia, ovviamente. Ma si troverà sempre il modo di arrangiarsi. Così, ho "catturato" quest'uomo davvero importante, distrutto da diverse vicissitudini esistenziali che non voglio riferire. Gli ho chiesto soltanto di preparare e disfare da solo il divano-letto nel mio studio. Ed egli lo fa con grande precisione. Ora siamo diventati grandi amici, e spero che non se ne vada mai. Ha settantasei anni. E' bravo, colto, gentile, educatissimo. Mia figlia lo adora come un nonno ritrovato, mia moglie lo guarda adorante rimpiangendo i sessanta anni che dividono i loro destini, le gatte tentano di mostrargli il loro affetto mordendogli con dolcezza le grandi mani venate d'azzurro. Non racconto la sua storia, perché non mi perdonerebbe. Fatto è che, da vecchio, si è trovato solo e disperato. Sino a questo momento gli piace la mia famiglia. E la mia famiglia si è innamorata di lui. Ma, involontariamente, ci ha creato un grave problema: tutti noi viviamo nel terrore di dire o fare qualche cosa che possa dargli dispiacere e lo induca a lasciarci soli, senza il bene del suo grande sorriso sdentato. Rientriamo tutti più presto del solito a casa, a parte i gatti che vi restano sempre, perché abbiamo voglia di sentire la sua voce, le sue favole, le sue speranze. Dice, ad esempio: "Quando diventerò ricco...". Non diventerà mai ricco, ma ci crede ancora. La differenza tra lui e me è proprio in questo: io so bene che non diventerò mai ricco, e, pensandoci bene, non m'interesserebbe molto diventarlo. Ma lui vorrebbe, per regalare culle dorate alle mie gatte, abiti fastosi a mia moglie, pigiami di favola a mia figlia.

Basta, però, con questo resoconto autentico dl un fatto "strappalacrime". Avrei voluto dire soltanto che i vecchi, come saremo tutti noi un giorno o l'altro, sono spesso anime favolose e splendide. Il solo errore è che non bisogna "adottare un nonno"; siamo noi che dobbiamo farci adottare da lui.


L.V.- Ma è tutto vero? Avete veramente adottato un vecchietto?

Fran- Le cose sono andate proprio come le ha esposte. La sua generosità faceva parte della sua natura. Anche per questo non aveva mai un soldo in tasca: se c’era qualcuno che gli chiedeva aiuto, non era capace di rifiutarglielo. Anche se aveva un formidabile "gusto del NO", non poteva dirlo a chi aveva bisogno di un suo aiuto.

L.V. - Cosa mi dici di tuo padre "scrittore"?

Fran- L'amore di mio padre per la scrittura risale all'infanzia, e nell'adolescenza, durante il liceo scriveva per ''la rivolta ideale'', giornale politico culturale, nel periodo universitario per ''30 e lode ", i suoi sono stati spesso racconti presi dalla vita per raccontare e raccontarsi, a volte immaginari. ma la poesia e la tenerezza nel descriverli era la stessa. i ricordi della sua adolescenza di giovane di destra, di ragazzo povero ma ricco di ideali, speranze e forza.

L.V.- Parlami delle vacanze che facevate insieme.

Fran- Quelle che ricordo con maggiore tenerezza, sono le vacanze passate tra le montagne, dove ancora oggi i vecchi amici rimasti sono in contatto con mia madre e lo ricordano con rimpianto, tra i montanari, in quel minuscolo paesino sul Piave chiamato campolongo, '' ...oasi miracolosamente scampata al progresso.. ". Dove anche io ho mosso i primi passi, portata fin dai due mesi da mia madre e mio padre. Quante passeggiate mano nella mano e poi, di sera, tutti davanti al camino con i canti montanari e un buon bicchiere di grappa.


La maggior parte degli italiani ricomincia il lavoro. Soltanto i più raffinati conoscono la gioia di andare in villeggiatura a settembre, quando le località più belle non sono più gremite di vocianti eserciti di scamiciati che cercano di convincersi, urlando, di divertirsi un mondo. Per gli altri, le vacanze stanno per finire. Anche per me. Ho cominciato, oggi, a salutare gli amici di Campolongo di Cadore, dove ho trascorso questo mese. E' vero che. ogni giorno che passa, è l'anniversario del giorno corrispondente l'anno prima. Ma occorre un fatto in qualche modo importante, sia r pure un ritorno in città, per indurre a fare un consuntivo di una stagione finita, e dei giorni trascorsi dall’identica partenza, l'anno passato : Che cosa è accaduto in quest’anno ? Vita di sempre, solita vita, a considerarla così, un blocco di mesi e di giornate fissate ormai in un totale. Ma le ore, se riuscite a ricordarle, sono state intense e difficili, serene o angosciate, e si era più giovani di un anno, di quando siamo andati via l'altra volta, e tutto si è svolto così in fretta che ci siamo trovati nuovamente in vacanza, e nuovamente sul punto di partire, senza che un nume ci avvertisse che è questo il modo sornione e perfido con cui il destino ci ruba, rosicchiandola piano e senza far male, la vita. Ed è triste finire la vacanza, quando non si riesce a pensare più, com'era facile pensare una volta, che i mesi di lavoro che ci attendono ci porteranno tutta la gloria, tutta la fortuna e tutte le vittorie in cui una volta sapevamo credere.


L.V.- Era un tradizionalista?

Fran- Per lui, tutto ciò che era "tradizione" appariva estremamente importante. Diceva che le tradizioni sono le radici dei popoli, ma anche delle singole persone. Questo "voler conservare le cose buone" era, per lui, non solo un riferimento culturale, ma una certezza della sua esistenza.

L.V.- Eppure non sembrava un casalingo.

Fran- No, non lo era. Ma quando mio padre parlava della casa, della sua casa, parlava di un sogno. Forse è proprio questo il motivo per cui cambiare casa, per mio padre, equivaleva al verificarsi di una tragedia. Perché nella casa che lasciava, talvolta per una più bella ma "troppo" nuova, erano legati i sogni, i ricordi, le speranze di una parte della sua vita.


Mi trovo a passare nella strada dove ho vissuto tanti anni della mia vita, i più duri, i più dolci, i più saggi, i più folli. Quieta, nascosta casetta al secondo piano di viale Gorizia! Durante la guerra, lo scantinato era divenuto un rifugio, ma un rifugio alla buona, che serviva soltanto a far dimenticare la paura delle bombe resuscitando o provocando dolori reumatici con l'umidità che gocciava dai muri come pianto: quattro travi, un estintore e due sacchetti di sabbia. Finirono quegli anni, e mi trovai d'improvviso, quasi senza accorgermene, non più bambino. Quando mia sorella si sposò, potei infine avere una stanza tutta per me: l'arredai con semplicità, come una cella francescana: una brandina, una scrivania ed un grande scaffale. (Erano gli anni in cui era bello pensare alla gloria conquistata con lo studio e con il lavoro, studiando, leggendo, scrivendo).

Fu anche la casa dei primissimi anni di matrimonio. Eravamo molto poveri, io e Giovanna, ma per quello che posso ricordare, non siamo mai stati infelici, in quella casetta gelida. O forse lo siamo stati, a volte, ma con rabbia, con entusiasmo, con ribellione, sicuri di noi e di tutto il bene che ci toccava e ci sarebbe stato elargito, prima o poi, perché avevamo le stelle buone dalla parte nostra. Mai la muta, ottusa infelicità che si raggiunge più tardi, quando tutto diventa più sciocco, più inutile e provvisorio, e d'improvviso ti accorgi che si era grandi soltanto perché si era giovani, ed è una grandezza di tutti, non di quella forma particolare che si affina con la vecchiaia. Vecchia casa della miseria e dei sogni. No, non una casa soltanto: un'isola, un mondo, un mucchio di anni e di sentimenti che, tanto per farsi riconoscere, si sono trasformati in pietre, in calce, in mura, in abitazione. Una patria, ecco cos'era. E, se penso ad ora, e alla nuova confortevole casa, ho la sensazione esatta di quello che può essere una diserzione. Certo, si vive meglio, oggi. E avere sposato Giovanna resta l'unico fatto buono e giusto dei miei anni sbagliati: non è cambiato molto dentro di noi, per quello che riguarda noi due. Ma non sappiamo più dirlo con le parole di allora, quando le parole erano il nostro caldo e la nostra vita, e non ci vergognavamo dl confessarci la nostra candida, ingenua e fidente umanità. Tra quelle mura che abbiamo perduto e rinnegato, nella illusione di conquistare un’altra patria per quello che eravamo, è rimasta aggrappata la nostra buona giovinezza.


L.V.- Quale era il suo atteggiamento nei confronti di una civiltà che sembrava avviarsi verso il suo definitivo tramonto?

Fran- Mio padre si comportava, davanti allo sfacelo della società, con maggior rigore e con maggiore impegno, quasi a voler dimostrare che era possibile comportarsi onestamente e con dignità. Vestiva sempre in completo ed era elegantissimo. Era il suo modo di ribellarsi, almeno questo è quello che diceva. " In un mondo in cui la maggior parte della gente va in giro con i capelli lunghi, sporca, vestita da straccione, l’unico vero protestatario sono io che metto sempre giacca e cravatta".


L’altro giorno, dopo un lungo viaggio di lavoro, tornavo da Milano in un confortevole treno, evitando un repentino sciopero degli aerei. Improvvisamente e con mia grande sorpresa, considerata la mia lunga assenza dalle Ferrovie di Stato, ho risentito una "voce" che sembrava quella del buon Dio, pronta a fornire tutte le informazioni ai viaggiatori: "La prossima fermata è Bologna"; oppure: "Ci fermeremo a Firenze". L'annuncio veniva ripetuto in tre o quattro lingue. Ma l'unico straniero che viaggiasse a quell'ora e su quella linea, a quanto mi risulta, era un simpatico signore seduto di fronte a me, con il quale avevo fatto amicizia. Parlava un italo americano molto divertente e abbastanza comprensibile. Ci siamo recati insieme al vagone ristorante, e durante il pasto l'ho sentito emettere suoni assolutamente inconcepibili per noi italiani di decente educazione. Infine, ha preso il tovagliolo e vi si è soffiato il naso con gran fragore, appena soffocato dal rumore del treno. Poi, mi ha regalato, nonostante i miei tentativi di cortese ripulsa, un grande e prezioso sigaro.

Era un notevole industriale del New Jersey, e parlava un italiano comprensibile. Ma quando la voce del treno ha detto m inglese che la prossima stazione sarebbe stata Bologna, mi ha chiesto aiuto: "Scusa, io non parli good italiane e non capisce ... che ha detto?".

In realtà, lo "speaker" ferroviario non era dei migliori, e di sicuro non aveva studiato ad Oxford.

Mi raccontano quanto è accaduto ad una signora italiana che, trovandosi in Svizzera e leggendo l'insegna di un negozio, "Coiffeur", è entrata con decisione e, tra una miriade di donne sotto il casco del parrucchiere, ha ordinato con decisione: "Un caffè senza zucchero, please!"

Coiffeur come caffè.

Mi ritorna in mente un altro episodio. Mi trovava ad Amsterdam, e cercavo affannosamente una strada. Naturalmente, non conosco una sola parola di fiammingo, e adoperavo il mio povero inglese. Ho fermato un passante e gli ho chiesto: "Do you speak english?". E lui mi ha risposto: "Yes, I do". Il discorso è finito cosi: gli ho chiesto se parlava inglese, lui mi ha risposto di sì, e quindi si è allontanato in fretta, dopo avermi rassicurato sulla sua conoscenza delle lingue e senza aspettare la richiesta che avrei voluto formulare.

Ora si apprende che, finalmente, l'Azienda filotranviaria di Roma ha deciso di cambiare i cartelli che avvertivano, in italiano e in inglese, di non salire sugli autobus senza un biglietto acquistato nelle apposite rivendite. Per quello italiano non c'erano problemi: "Acquistate il biglietto prima di salire". Ma quello inglese suonava, press'a poco così, tradotto com'era da qualcuno che l'inglese lo aveva imparato, molto frettolosamente, in qualche scuola serale: "Senza biglietto, non si può andare avanti nella vita". Dopo qualche giorno, finalmente e in seguito a innumerevoli proteste, si può leggere l'avviso esatto: "Do not board without a ticket...". Lo ha fornito l'ambasciata britannica, in prima persona. La vita, come si è finalmente appreso, è una cosa diversa.

La realtà è che il nostro popolo, tra sue doti, non ha quella della propensione per le lingue. Il suo dramma è che pretende di essere poliglotta, ed è per questo motivo che tutte le lingue diventano una versione dell'angloromano, del siculotedesco, del francopiemontese e, in tutti i linguaggi, ci ostiniamo a credere che, per andare "avanti nella vita", bisogna pagare un pedaggio o un biglietto dell'Atac. Il che, a pensarci bene, non è del tutto sbagliato.


L.V.- Uno dei drammi del nostro paese è formato dai continui scioperi che paralizzano la nostra vita. Scioperi di benzinai, di autotrasportatori, di controllori di volo, di autoferrotranviari e perfino scioperi di poliziotti che, con sollazzo dei malviventi, mettono in ginocchio quanto resta della nostra civiltà. Come affrontava questo tema Luciano?

Fran- Mio padre odiava lo sciopero come istituzione. Non che lui fosse contrario a chi manifesta per migliorare le sue condizioni di lavoro Al contrario. Riteneva solo sbagliato e ingiusto che, il più delle volte, si usasse questo, come mezzo per fare politica. Ma lo sciopero dei bancari dette modo a mio padre di appuntare un divertente pezzo di costume


Con lo sciopero dei bancari è riaffiorata, d'improvviso, anche l'ormai desueta felicità di girare per la città senza una lira in tasca. E' una condizione umana bellissima. Si aggirano, per le strade, mendicanti e barboni che si avvicinano ai passanti e non chiedono l'elemosina; dicono soltanto: "Scusi, signore, ho finito il libretto degli assegni e la mia banca è chiusa: potrebbe prestarmi tremila lire fino alla fine dello sciopero?". E' difficilissimo, attualmente, che un comune mortale abbia ancora tremila lire, in splendidi contanti, nel portafoglio: ma trecento lire forse sì, e si possono regalare. Nascono anche nuove forme di solidarietà e dì amicizia. Il mio giornalaio abituale, ad esempio, mi fornisce un enorme numero di pubblicazioni, senza pretendere per ora una lira. Così il tabaccaio che mi rifornisce di sigarette, sempre sulla fiducia. Un paio di giorni or sono mi ha prestato anche diecimila lire: me ne avrebbe date molte di più, ma aveva il cassetto pieno dì assegni, che ha messo a mia disposizione, ma che non avrei saputo dove e come cambiare.

Se questo sciopero continuasse, vorrei che qualcuno risolvesse un mio dubbio ed ascoltasse una mia proposta. Il dubbio è ovvio: i dipendenti degli istituti di credito in sciopero hanno ricevuto e hanno potuto incassare i loro stipendi? La proposta è questa: torniamo al vecchio baratto, molto più nobile e meno rischioso del sistema monetario. In cambio dì otto uova, posso versare tre penne biro, un libro e due dispense sulla storia della seconda guerra mondiale. Per contro, per compensare i diritti d'autore di un libro o di una canzone, gli editori potranno dare a uno scrittore un cosciotto d'abbacchio, una bottiglia di Chiantì e qualche chilogrammo di pomodori. Ritroveremo così la sana semplicità dei rapporti umani. E per saldare i nostri debiti con l'Ufficio imposte dirette verseremo una pecora, sette paia di calzini e una poesia autografa di Dario Bellezza, purché quest'ultimo voglia dare, come resto, una lettera inedita di Pasolini, con la quale potremo acquistare tre scatolette di tonno e due confezioni di sale grosso. Anche in questo modo sì riscoprono le "radici" dell'umanità e si possono ridimensionare i bancari, gli stipendi e perfino i premi letterari.


L.V.- Insomma le cose che diceva e scriveva allora, sono ancora attuali.

Fran- Proprio così. E pensare che il Giubileo era ancora roba di ''un altro secolo''. E poi la nuova popolazione delle città, formata da immigrati di tutti i tipi, di barboni, di mendicanti, di spacciatori, di prostitute e così via. Ma tutti costoro, per le sinistre, sono soltanto emarginati da aiutare. A fare cosa, poi?


Non amo le mezze parole, gli eufemismi cretini, le espressioni che non riescono a consolare. E' inutile, a mio avviso, chiamare "non vedente" un cieco. Un cieco è un cieco e basta. E lui lo sa benissimo. Se, con parole diverse e dolci, riuscissimo a regalargli il bene della vista, sarebbe giusta ogni parola meno cruda. Ma, per chi è cieco, ci vogliono altro che "definizioni obbligate", per restituirgli la possibilità di vedere. Così, un muto è un muto: non serve chiamarlo, non so, "non parlante". E non costituisce una terapia dire di un sordo che è un "non audiente".

Questi nostri amici, fratelli, parenti, sono ciechi, muti e sordi. Bisogna ritrovare lì coraggio di chiamarli con i loro nomi esatti, sino a quando la medicina moderna, con le sue nuove scoperte, non sarà riuscita a guarirli dalle loro malattie. Altrimenti, a che cosa serve scherzare con le definizioni? Se vogliamo divertirci o sentirci più buoni e bravi con le parole e con gli eufemismi è un conto, ma se vogliamo davvero discutere con la scienza bisognerebbe entrare nel campo delle guarigioni, non del linguaggio!


Fran- C’è un fatto che non dobbiamo dimenticare: qualsiasi notizia diventava per lui l’occasione per esporre le sue idee. Non aveva molta considerazione per la modernità, in senso lato, e in questo senso, come dici tu, era un conservatore. "Bisogna conservare tutto quello che c’è di buono nella nostra storia" diceva spesso.

L.V.- Tuo padre ha usato molti pseudonimi, oltre al suo nome, come mai?

Fran- Aveva il timore di inflazionare. Sembra strano ma mio padre era un uomo molto modesto, in questo. E così usò molti pseudonimi, anche se tutti sapevano chi si celava dietro nomi come Lucius Delno o altri. Sotto lo pseudonimo di ”Arcibaldo”  mio padre curava una rubrica su un quotidiano, quasi al servizio del cittadino. Le lettere che i suoi lettori gli inviavano gli davano lo spunto per affrontare quei punti interrogativi, del tutto legittimi, che questo nostro paese faceva sorgere.


Li vedo uscire da un'osteria di un quartiere popolare. Sono vecchi, vestiti male, vacillanti. Lui è basso, tozzo, calvo. Lei indossa il vestito nero dell'antico lutto che pesa, da sempre, sull'anima di ogni donna del popolo che non abbia mai avuto pane sufficiente per i propri figli, abiti sufficienti per il proprio marito, nè amore sufficiente per le proprie nottate buie. Ora, uscendo dall'osteria, si sostengono a vicenda. Ormai i loro figli, se ne hanno avuti, sono sposati e certamente stanno cercando di dimenticare genitori così. Sono soli con tutta l'amarezza che si è raggrumata nei loro anni, con tutto il rancore che hanno accumulato l'uno contro l'altro, con tutto il vino che hanno bevuto insieme in questa serata di follia e con tutta la pietà che forse ognuno avverte per la delusa vecchiaia dell'altro. Girano all'angolo della strada e scompaiono in un vicolo oscuro. Sembra che muoiano così, nella notte del vicolo, senz’altro appoggio, senz'altra odiata illusione che quel braccio tremulo che si offrono l'un altro, per sostenersi a vicenda.


L.V.- Che rapporto aveva con la religiosità?

Fran- Non lo dimostrava a tutti, ma mio padre aveva un profondo senso della religiosità. Si trattava di una forma di religiosità che non lo legava a credenze particolari, anche se nel fondo del suo animo la tradizione cattolica era sempre presente. Come ho già accennato, l’elemento tradizionale era quello che maggiormente trapelava, non solo da ogni suo scritto ma da ogni sua azione. Per fare un esempio, e senza confondere la Tradizione con le tradizioni, le festività religiose che spesso sono collegate a modelli arcaici, erano un motivo di spunto attraverso le quali egli si divertiva a cogliere gli aspetti certamente meno religiosi ma più ''alla moda" che a certi cattolici dichiarati piacciono tanto.


La macchia di luce, del palazzo addormentato, creava sull'asfalto uno sfumato chiarore. La gente, passando, camminava in punta di piedi, per evitare la pozzanghera lucente. Avevamo molte cose da dirci. Ma quell'asfalto bagnato di riflessi assorbiva i nostri pensieri e faceva nascere il desiderio di non parlare d'altro che di buio e di stelle al neon, di finestre illuminate perdute nei tempo ma ancora accese nel buio dei nostri. cuori addormentati, di notti vecchie come mura grinzose e fresche, nuove come pensieri di felicità, quando luce buona, luce di sole, filtra dolce dalle finestre spalancate e carezza le coperte di un letto per sognare. Disse sarebbe tutto bello, Sarebbe, disse. E non era non era mai stato, non sarebbe mai accaduto che fosse realmente bello, bello per queste strade che sono e non sarebbero, bello per queste mani che fanno e non farebbero, bello per questo mondo che è. Dissi forse sarebbe bello. Perché siamo presenti, noi, e niente è bello per sempre, finché ci saremo noi, i nostri volti ebeti, i nostri pori dilatati, le nostre mani tremule. La nostra angoscia nata da una eterna vecchiaia, da una nostalgia di prima, di prima, di prima ancora che ci fossero L'evento il mondo gli uomini e questo desiderio di bello


L.V.- Il 1997 fu l'anno di Dario Fo; qualcuno lo ha scoperto, qualcun altro riscoperto. Noi, in cabaret, ne discutevamo parecchio ma lo consideravamo un ottimo attore. Non dimentichiamo che per uno dei suoi spettacoli Luciano assunse Giustino Durano.

Fran- È vero. Sembrava avere il gusto del paradosso. Dario Fo era un personaggio anche allora, ma oggi è riuscito a sconvolgere anche il premio Nobel. Ma sul personaggio Fo, così originale nel panorama teatrale, mio padre aveva scritto alcune considerazioni già nel 1962, in una lettera aperta indirizzata a sua moglie Franca Rame. (che oggi, purtroppo, non c’è più)


Gentile signora Rame, innanzitutto debbo spiegarle perché mi rivolgo a lei, anziché a suo marito. Il fatto è che gli "intellettuali di sinistra" (o aspiranti tali) come suo marito, mi sono venuti profondamente a noia. Ho in uggia la loro saccenteria, il loro tono messianico, i loro sorrisi e le loro tristezze, il loro coraggio fasullo e la loro autentica resa ai miti balordi del nostro tempo. Per questo, evito accuratamente, oramai, di parlare con loro: conosco i loro ragionamenti, le loro pose e la loro retorica; so a memoria le astuzie dei loro sovversivismo comodissimo, che si esprime sempre con l’approvazione e il plauso dei potenti. Ma tutto questo non implica, ovviamente, che io e molti telespettatori con me, abbia in uggia anche le mogli degli intellettuali, di ruolo o avventizi, della sinistra nostrana: anzi, molte cose si perdonano a questi menestrelli del sole dell'avvenire, in considerazione della silhouette, a volte decisamente gradevole, delle loro consorti. Ecco perché preferisco rivolgermi a lei, anziché al suo Dario. E sono spiacente, gentile signora, di doverle dare subito torto. Nel corso di una recente intervista, parlando di Dario Fo, della sua intelligenza svagata e della sua varia umanità, ella ha detto: "Dario è un lunare, si trova qui per caso. Viene decisamente da un altro mondo..". E questa, sinceramente, mi sembra una clamorosa bugia. Non so che cosa le abbia raccontato suo marito a proposito delle proprie origini; ma posso assicurarle che se le ha fatto credere dl provenire dalla luna, ha sfacciatamente mentito. Egli è un terrestre, e riassume in se tutta la stanchezza e la voglia di vivere tranquillamente, tutta l'astuzia e tutta la filosofia del "tengo famiglia" che caratterizza gli uomini del nostro pianeta decrepito. Non si lasci incantare dal suoi atteggiamenti di "pasionario", dalle sue dichiarazioni di ribelle con licenza dei superiori, dal suoi toni di socialitario per vocazione e per destino: egli è soltanto un cittadino di questa terra che ha capito tutto e ha per tempo alzato il ditino bagnato per conoscere la direzione del vento, adattando prontamente ad essa il proprio orientamento.

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Dubito, cara Signora, che le sia accaduto spesso di essere guardata negli occhi da un uomo. Ma è ora di farlo: guardiamoci dunque negli occhi, e cerchiamo di essere sinceri. Crede davvero che, in una situazione come quella attuale, ci voglia un gran coraggio per parlare di Buchenwald o per canzonare i capitalisti? Ma un’altra cosa vorrei dirle. Qualche tempo fa il compagno Togliatti disse che tutti, in Italia, dalla politica all'economia e potremmo aggiungere , allo spettacolo, si svolge in funzione di "cento famiglie da salvare". C'è qualcosa di vero, in questa affermazione del Migliore. Ed è indubbio che tra queste Cento famiglie per cui il favoloso "miracolo italiano" è effettivamente e gioiosamente esploso, figura la famiglia Fo. Mi perdoni, cortese signora, ma c'è aria di trucco, in un siffatto atteggiamento. Infatti la sua satira contro la gente dalla ricchezza facile sembrerebbe molto più vigorosa, se egli rifiutasse gli onerosi compensi che si fa dare, chiedendo prima un giusto trattamento per i casellanti ferroviari e per i braccianti agricoli. Cerchi Lei di convincere suo marito, Lei ha argomenti per convincerlo, se vuole. E soprattutto non si lasci fuorviare dalle sue istanze cerebrali, Da qualche tempo, infatti, il pubblico assiste, con vivo allarme, alle dichiarazioni che Lei rilascia alla stampa nel tentativo di convincere gli altri e se stessa che Lei è una grande attrice. Dicono che lei "è stanca delle critiche che si concludono con l'ineluttabile : bella la Rame”. Ebbene, signora, lasci perdere. C'è chi nasce bella, con tutte le curve prescritte dalla consuetudine, e c'è chi nasce brava, con tutti i requisiti che si pretendono in una grande attrice; e a volta succede che qualcuna nasca con le due qualità, e sia bella e brava: ma succede molto di rado, e soltanto quando il buon Dio si trova in un periodo di particolare euforia e vuole dimostrare agli increduli di che cosa sono capaci, lassù, Lei è nata bella e tanta, gentile signora: ringrazi la Provvidenza che non è stata parsimoniosa, nei suoi confronti, ma non si abbandoni alle illusioni, il nume che veglia sulle sorti del teatro si inquieta molto quando viene a sapere che una viva si sente matura per Shakespeare o per Pirandello per il solo fatto di possedere un paio di gambe pregevolissime. Del resto, in questo clima di cerebralismi cretini e di grandi truffe, abbiamo molto più bisogno dl donne che sappiano portare con disinvoltura tutte le loro curve che non di attrici sbagliate e illuse. Tanto le doveva, cara signora, uno spettatore deluso e nauseato, che non ha più alcuna fiducia negli intellettuali di sinistra ma vuole ancora illudersi sul conto delle loro rigogliose consorti.


L.V.- Parlando di Dario Fo, non si si può sfuggire al tema della letteratura e dei premi. Mi sembra che egli non amasse molto certo genere di manifestazioni.

Fran- Mio padre, soprattutto, odiava l’ipocrisia. Era il periodo in cui in Italia qualcuno sentiva, forte, il bisogno di premiare e di premiarsi. I premi, letterari o meno, cominciarono a moltiplicarsi, tanto che cominciò a essere difficile incontrare nei salotti buoni qualcuno che non fosse stato premiato, magari per il Premio letterario "Sagra del Carciofo". 


Per ragioni di lavoro sono stato costretto a partecipare alla cerimonia di assegnazione di un importante premio letterario romano. Lo avrei evitato volentieri, perché ormai so come vanno queste cose. Si respira un'atmosfera rarefatta, vagamente irreale, tra giornalisti che fingono di ascoltare quello che alcuni scrittori fingono di confidare in onestà, mentre signore, illustri o analfabete, esaminano con cupidigia o disprezzo i rispettivi abiti e c'è sempre l'ignaro cronista di una radio privata che, appoggiando il microfono sui denti di Massimo Grillandi gli chiede: "Domandiamo a Carlo Cassola che cosa pensa delle opere di Massimo Grillandi...". E Massimo Grillandi, che ha anche il senso dell'umorismo, risponde quietamente: "Tutto il bene possibile. Per me, è il più grande scrittore del mondo...". Ma sono rare queste occasioni di allegria. Mi trovo accanto a Luciano De Crescenzo, l'ingegnere umorista che ha scritto recentemente, e inopinatamente, una "Storia della filosofia greca". "Ho saputo - gli dico - che il tuo libro ha venduto, in una settimana, più di centomila copie. Una cifra da capogiro, in un paese come il nostro, in cui la gente legge soltanto le scritte spray sui monumenti...".

Col suo sorriso napoletano e i suoi occhi da consapevole scugnizzo allegro e invecchiato in fretta, mi confida: "È vero. Sono state vendute tante copie del mio libro che nemmeno il distributore ci credeva...". Cerco di provocarlo: "Allora, certamente vincerai un premio...". "Non se ne parla proprio! In Italia, se ti diverti a lavorare, se ti diverti a scrivere, se ti diverti a vivere, non ti premiano mai. Ma come?, dicono, quello fa la televisione, il cinema, abbraccia Lori Del Santo, se la spassa con Arbore, Benigni, la filosofia greca, e bisogna pure premiarlo? Quando sarà morto e saremo sicuri che non riderà più, ne riparleremo...".

Una bellissima signora gli passa accanto, lo riconosce, lo abbraccia e lo bacia, allontanandosi promettendo un vago appuntamento: "Ecco - dice De Crescenzo - con questo bacio ho perduto almeno altri dieci anni di premi letterari. E se poi arriva quel matto di Arbore e ci mettiamo a ridere tutti insieme, non se ne parla più per l'eternità".

Infatti, in un capannello poco distante, distinguo alcuni letterati alla moda, tra i più reclamizzati dei nostri giorni e che nessuno legge. Sembrano affiliati alla compagnia della buona morte: hanno sguardi opachi, volti lugubri, espressioni affrante. Forse sono intenti a parlare di letteratura contemporanea o di qualche altro caro estinto, ma certo suggeriscono l'idea di prefiche munite di silenziatore, intente a esorcizzare i lutti del inondo in un fiume di malinconia. Giunge dal gruppo, in un'improvvisa pausa di silenzio, la voce un tantino roca dello scrittore che, pochi minuti dopo, vincerà il premio. Egli dice con tono affranto: "Il nostro indimenticabile Vincenzino me lo diceva sempre: a che serve più scrivere? Smettila, tu che sei giovane e fai ancora in tempo".

Lo sciagurato non ascoltò Vincenzino e non smise. E ora riceve, con aspetto sempre più da "zombie", il premio che gli è stato attribuito. Gli sta bene. Così, un giorno o l'altro, dopo aver vinto l'ultimo premio disponibile, potrà, piangendo, scegliere l'onorata strada del suicidio. A ridere resteranno i filosofi, latini o greci.


Fran- Non era certo questa l’Italia per la quale aveva scritto, lottato caparbiamente per ritirarsi, sconfitto, lasciando libero il campo ad improvvisati scrittori, a contemporanei scontati (anche perché l'intelligenza è a buon mercato), loschi tipi assoggettati a quello o quello altro polo. Mi manca molto una sua risposta, anche per aiutarci a ritenerci fortunati di essere ancora qui, ma potrei parafrasarlo: “Certi onori non basta rifiutarli, bisogna imparare a non meritarli”. Questo era mio padre Luciano Cirri, un Uomo. Un poeta che guardava lontano, che scrutava con i suoi occhi color cielo, orizzonti infiniti nella ricerca di qualcosa di vero, di sacro per il quale potesse valere ancora la pena di esistere.

 Leo Valeriano